1 In stampa in “Sulle origini del linguaggio. Immaginazione, espressione, simbo

1 In stampa in “Sulle origini del linguaggio. Immaginazione, espressione, simbolo. Atti del convegno di Parma, 2- 3.5.2011”, a c. di Rita Messori Secolarizzare le origini: Leibniz e il dibattito linguistico seicentesco di Stefano Gensini (“Sapienza” Università di Roma) Accompagnando Gastone, mio padre, laico fino al suo ultimo giorno. 0. Negli ultimi anni della sua vita, Gottfried Wilhelm Leibniz, dopo essersi da tempo guadagnato una fama di eccezionale esperto della storia e delle parentele linguistiche del mondo conosciuto, si diede ad alcuni scritti di sintesi che restano fra i monumenti di quella che Luigi Rosiello (1967) ebbe a chiamare “linguistica illuminista”1. Due di questi lavori videro la luce, in sedi editoriali importanti, che consentirono loro un’ampia circolazione fra i dotti e gli specialisti di lingue: la Brevis designatio meditationum de originibus gentium, ductis potissimum ex indicio linguarum, apparsa nel 1710 nel primo volume dei Miscellanea Berolinensia (Berolini 1710, pp. 1-16), gli atti dell’Accademia delle Scienze di Berlino, di cui Leibniz era presidente sin dal 1701; e la Dissertatio insigni viro Johanni Chamberlaynio, dedicata appunto al vescovo e erudito inglese John Chamberlayn (1666-1732), curatore del volume Oratio Dominica in diversas omnium fere gentium linguas versa et propriis cujusque linguae characteribus expressa: una cum dissertationibus nonnullis de linguarum origine, variisque ipsarum permutationibus (Amstelodami 1715; lo scritto di Leibniz prende le pp. 22-30). Mentre, subito dopo la morte del filosofo, parecchi altri lavori di interesse linguistico furono pubblicati nei Collectanea Etymologica (una raccolta in due tomi, uscita a Hannover nel 1717 a cura dell’antico segretario Johann Georg Eckhart), forse il più importante di questi tardi contributi leibniziani restò inedito sugli scaffali, la Epistolica de historia etymologica dissertatio (concepita e stesa di getto nel 1711, ripresa e ampliata l’anno successivo, ma rimasta orfana dell’ultima mano per il sopravvenire di impegni diplomatici verso la fine del 17122). 1. Scorrendo questi tardi frutti del poliedrico ingegno leibniziano, ci si imbatte in diversi temi “caldi” della filosofia e della ricerca linguistica della modernità, oggetto in quei decenni di dibattiti che dal piano dell’indagine filologica e erudita risalivano a interrogativi storici e teologici della massima importanza. Uno di questi era, evidentemente, il modo in cui si era originato il linguaggio umano e da esso si erano via via sviluppate tante lingue differenti; strettamente collegate a ciò, la questione se l’ebraico andasse effettivamente riconosciuto come lingua-madre del genere umano, parlata da Adamo e rimasta integra almeno fino a Babele, e l’altra questione relativa ai caratteri della confusione babelica e alla successiva dispersione delle parlate e delle nazioni: se si fosse trattato, cioè, di un evento miracoloso o se anch’esso andasse ricondotto a ragioni mondane, in certo senso “naturali”3. 1 Sul Leibniz linguista, a lungo trascurato, la letteratura critica si è negli ultimi decenni infittita. Sul posto tenuto da Leibniz nella maturazione del paradigma comparatista si v. ad es. De Mauro e Formigari (eds.) 1991. 2 Vedila edita in forma ‘semidiplomatica’ in appendice a Gensini 1991. Ivi anche informazioni sullo stato del testo e sulle (presumibili) fasi della stesura. 3 Per un quadro di questi dibattiti rende ancora ottimi servigi l’ampio repertorio di Droixhe (1978). 2 La primazia genealogica dell’ebraico era un luogo comune della cultura europea, fissato in testi canonici come il De civitate dei di Agostino e come le Etymologie di Isidoro, ribadito senza equivoci agli inizi del Trecento in un testo di massimo impegno teorico quale il De vulgari eloquentia di Dante, e ancora pienamente attivo negli anni in cui Leibniz si forma linguisticamente e interviene. Esempi illuminanti ne sono il Glossarium universale Hebraicum quo ad Hebraicae lingua fontes, linguae et dialecti paene omnes revocantur (1697) del padre oratoriano francese Louis Thomassin (1619-1695), un libro cui Leibniz dedica molta attenzione nella citata Epistolica Dissertatio, e, più tardo, il Tresor d'Antiquez sacrées & profanes (1723) del monaco benedettino francese Antoine Augustine Calmet (1672-1757), un trattato cui toccò la fortuna di numerose riedizioni e traduzioni, una anche in italiano, uscita nel 17414. Non solo, dunque, l’ebraico veniva ritenuto la lingua originaria del genere umano, dettata o (a seconda dei punti di vista) ispirata da Dio a Adamo, e dunque dotata di una innata “coessenzialità” alle cose significate; essa formerebbe tuttora, malgrado le innumerevoli variazioni indotte dagli accadimenti storici, il punto di convergenza delle lingue del mondo, identificabile mediante il gioco sottile dell’etimologia armonica. Per capire come l’ebraico veniva visto in pieno Seicento, vale la pena leggere queste righe del dotto gallese John Davies (~1567-1644), ricercatore delle origini della lingua celtica e autore di un Antiquae linguae Britannicae (…) Dictionarium duplex (1632), che nella prefazione all’opera sua scrive quanto segue: «… hanc palmam [scil. di lingua primigenia] Ebraeae concedere oportet, ut sit omnium linguarum matrix, omnium prima, quâ Deus ipse locutus est, quâ usi sunt ad sanctos patres angeli, quam paradisi incolae locuti sunt, quâ rebus nomina prima data sunt, ut quae cum ipsis rebus nata est; quâ vitae aeternae documenta inde ab orbe condito tradita sunt, ad consummationem usque seculi duratura; quae universae terrae, omniumque hominum, per 2000 fere annos, sola fuit & unica; quae, reliquis omnibus in pooenam fastuosi operis Babylonici à Deo missis, sola ab illa poena immunis fuit, & in familia Heber & Peleg, aliorumque sanctorum patrum, qui Babelis aedificationi non interfuisse creduntur, cum fide & vera religione mansit. Et si, ut quidam opinantur, ulla lingua à natura sit, hans solam esse hominum linguam naturalem credimus, nostram et reliquas matris hujus venustae degeneres filias, & adulterinos peccatorum foetus ex gigantum stomachoúntōn nequitia ortos; in quibus tamen sanctae matris pauca resplendent lineamenta, unitatis antique testimonia & reliquiae» (cit. in Boxhorn 1654 [cap. VII], pp. 90-1). Molti anni dopo, nel ricordato Trésor del 1723, e sia pure in un contesto più sfumato, che tiene conto del filone revisionista proposto dall’ermeneutica biblica di Richard Simon e altri autori, Calmet ribadisce nella sostanza l’opinione tradizionale. La quale ultima è invece sovvertita con chiarezza nei testi leibniziani. Il nocciolo della questione è fissato già in una lettera del 1697 all’erudito tedesco Wilhelm Ernst Tentzel (1659-1707), che riporto in una mia traduzione: «... Dire che la lingua ebraica è quella primigenia è lo stesso che dire che sono primigenii i tronchi degli alberi o che esiste una regione nella quale nascono i tronchi in luogo degli alberi. Cose del genere si possono immaginare, ma non rispondono alle leggi della natura e all'armonia delle cose, cioè alla Sapienza divina. (...) Questo soltanto possiamo ragionevolmente chiederci, se la lingua ebraica, insieme con quelle a lei imparentate, non sia più delle altre vicina all'origine, e non conservi più elementi delle fonti autentiche. Ho sempre stimato che, per conoscere correttamente la lingua ebraica, si dovessero considerare anche la lingua siriaca e l'arabo, e tuttavia non penso che da tutte le cose messe assieme si caveranno radici coerenti fra di loro e tali da esibire la ratio del significato, ciò che è da ritenere criterio di riconoscimento della lingua primigenia» (Leibniz 1995, p. 147). 4 A questa edizione italiana mi riferisco nel presente lavoro. 3 Leibniz si mostra qui ben al corrente delle conclusioni della nascente semitistica, che andava sfatando il mito della “specialità” dell’ebraico identificando i tratti soprattutto grammaticali che legavano tale lingua all’etiopico (l’amarico), all’arabo e ad altre lingue orientali. In particolare, la lezione dell’amico Hiob Ludolf (1624-1704), autore di una preziosa Grammatica aethiopica (1661), gli aveva offerto gli strumenti linguistici per vedere nell’ebraico non più di un dialetto di una vasta famiglia linguistica. Nella Brevis Designatio, Leibniz parla pertanto di un gruppo di parlate ‘aramaiche’ (di cui, col siriaco, l’arabo e altre fa parte anche l’ebraico) che si estende nella parte meridionale del mondo conosciuto, mentre il gruppo ‘jafetico’ (riportato alla genealogia di Jafet, figlio di Noè) occupa il mondo settentrionale, formando così il precedente diretto di quello che a fine Settecento verrà nominato ‘indoeuropeo’. Che l’ebraico serbi una maggiore rappresentatività delle fasi più antiche della storia – quelle di cui manca documentazione diretta e rispetto alle quali, dunque, le lingue «praestant monumentorum vicem» (p. 1) – dipende in definitiva dal fatto che essa è meglio conservata dalla tradizione testuale, «cum à nulla gente antiquiores libros habeamus» (p. 4), e non da una qualsiasi ragione extrastorica. In sostanza, Leibniz resta convinto di una ‘armonia’ di fondo delle lingue, ritiene cioè che le lingue esistenti siano la derivazione di una o poche lingue primeve la cui origine si perde nella notte dei tempi; ma tale nozione, ‘armonia’, utilizza come una sorta di ideale regolativo della ricerca, ben sapendo che circostanze occasionali, accumulatesi nei secoli e nei millenni, possono aver nascosto le affinità iniziali, così da suggerire un’estrema cautela negli accostamenti e nelle derivazioni: se si vuole evitare, come amava dire, di goropiser, ovvero di fare il verso al dotto olandese Goropius Becanus (Johann Van Gorp, 1518-1572) che nelle Origines Antwerpianae (1569) aveva sfiorato il ridicolo, facendo della sua lingua madre, rimasta al riparo dalla confusione babelica, la parente diretta dell’ebraico. Questo atteggiamento di prudenza metodologica ispira i paragrafi dell’Epistolica Dissertatio dedicati agli hebraizantes, il cui paradigma unitarista Leibniz sottopone a critica serrata, senza tuttavia rinunciare uploads/Litterature/ gensini-secolarizzare-le-origini.pdf

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